Il reparto n.6

Nel cortile dell’ospedale c’è un piccolo reparto circondato da una vera e propria selva di lappole, ortiche e canapa selvatica. Il tetto è arrugginito, il comignolo è mezzo crollato, i gradini della scaletta d’ingresso sono marci e invasi dall’erba, dell’intonaco non sono rimaste che poche tracce. La facciata anteriore guarda verso il corpo centrale, quella posteriore verso i campi, dai quali lo divide il grigio steccato dell’ospedale, pieno di chiodi. I chiodi, le cui punte sono rivolte all’insù, il recinto e il reparto hanno tutti quel particolare aspetto squallido, lugubre, che da noi hanno solo le costruzioni ospedaliere e carcerarie.

Notre Dame de Paris

Sono già oggi trascorsi trecentoquarantotto anni sei mesi e diciannove giorni da che i parigini si svegliarono al frastuono di tutte le campane che suonavano a distesa nella tripla cerchia della Cité, dell’Université e dell’intera città.
Il 6 gennaio 1482 non è però un giorno che la storia ricordi. Nulla di rimarchevole nell’evento che così scuoteva fin dal mattino, le campane e i borghesi di Parigi. Non si trattava né di un assalto di piccardi o di borgognoni, né di un reliquario portato in processione, né di una rivolta di scolari nella vigna di Laas, né di un ingresso del nostro temutissimo signor Messere il re, nemmeno di una bella impiccagione di briganti e di brigantesse in Place dela Justice a Parigi. Non era neanche l’arrivo, così frequente nel quindicesimo secolo, di qualche ambasciata tutta pennacchi e decorazioni. Erano trascorsi soltanto due giorni da che l’ultima cavalcata del genere, quella degli ambasciatori fiamminghi incaricati di concludere il matrimonio tra il delfino e Margherita di Fiandra, aveva fatto la sua entrata a Parigi, con grande preoccupazione di Sua Eminenza il cardinale di Borbone, il quale, per far piacere al re, aveva dovuto far buon viso a tutta quella rozza ressa di borgomastri fiamminghi, e lusingarli, a Palazzo Borbone con una molto bella moralità, satira e farsa, mentre una pioggia battente inondava alla sua porta i suoi magnifici arazzi.

Il rosso e il nero

La cittaduzza di Verriéres può passare per una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche con i tetti a punta, di tegole rosse, si stendono sul declivio d’una collina, sulla quale boschi di vigorosi castagni segnano le minime sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi al di sotto delle sue fortificazioni, costruite già dagli Spagnuoli, e oggi in rovina.

Le avventure di Pinocchio

C’era una volta…
Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.

I tre Moschettieri

Il primo lunedì d’aprile del 1625 il borgo di Meung sembrava in aperta rivoluzione come se gli Ugonotti, vi fossero venuti a formare una seconda Rocella. Diversi borghesi, vedendo le donne fuggire lungo la strada maestra, sentendo i fanciulli gridare sulla soglia delle porte, si affrettavano ad indossare la corazza, ed animando il loro coraggio, sebbene poco marziale con un moschetto od una partigiana, correvano tutti verso l’albergo del Franc-Meunier, dinanzi al quale si stipava un gruppo compatto, clamoroso e pieno di curiosità.
A quel tempo gli allarmi erano frequenti e passavano ben pochi giorni senza che una città o l’altra registrasse nei suoi archivi qualche avvenimento di tal fatta. Vi erano i signori che si facevano la guerra tra di loro; v’era il re che faceva la guerra al cardinale; v’era lo spagnolo che faceva la guerra al re. Poi oltre a queste guerre pubbliche o private, segrete o palesi, vi erano anche i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i lupi e gli staffieri che facevano la guerra a tutti.
I cittadini si armavano sempre contro i ladri, i lupi e gli staffieri; spesso contro i signori e gli ugonotti; poche volte contro il re, e mai contro il cardinale e lo spagnolo. Da questa abitudine derivò che in quel primo lunedì d’aprile 1625 i cittadini, sentendo il rumore e non vedendo né lo stendardo giallo e rosso, né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono verso l’albergo Franc-Meunier.

Delitto e castigo

All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell’appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla.

Il ritratto di Dorian Gray

Lo studio era pieno dell’intenso odore delle rose e, quando il dolce vento d’estate serpeggiava fra gli alberi del giardino, per la porta aperta entrava la pesante fragranza dei lillà o il profumo più sottile dei rovi in fiore. Dall’angolo del divano ricoperto di tappeti persiani, sul quale giaceva, fumando, com’era sua abitudine, innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton poteva appena afferrare il barlume giallo miele dei dolci fiori di un citiso, i cui tremuli rami pareva che non ce la facessero a sopportare il peso di una bellezza così fiammeggiante; e, a tratti, fantastiche ombre di uccelli svolazzavano attraverso le lunghe tende di seta tussorina tirate davanti all’immensa finestra, producendo una specie di momentaneo effetto giapponese e facendogli pensare a quei pallidi pittori di Tokyo dal viso di giada, i quali, mediante un’arte che è per necessità immobile, cercano di suggerire il senso della rapidità e del movimento.

Le mie prigioni

pellicoIl venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro.
Alle nove della sera di quel povero venerdì, l’attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch’io avessi in tasca, e m’augurò rispettosamente la buona notte.